Quinta sinfonia, Allegro – Beethoven

Ta ta ta taa 
Ta ta ta taa
Ta ta ta taa ta ta ta taa ta ta ta taa
Ta ta ta taa ta ta ta taa ta ta ta taa
Ta ta ta taa ta ta ta taa
Ta ta ta ta ta taa

Nel 1804 Ludwig Van Beethoven stava facendo colazione quando, preso dalla smania di dirigere, fece volare in aria una fetta di pane con sopra delle uova strapazzate che andò a conficcarsi in mezzo a quel popò di capigliatura che si ritrovava.

Ma-vac-ca-gà, urlò, cercando di estrarre la fetta di pane, prigioniera di quel groviglio che cresceva sulla sua testa. Se qualcuno dovesse essersi stupito per l’imprecazione italica, sappia che il grande compositore aveva qualche problema di udito ed era sicuro che le parole che aveva pronunciato fossero “I want to break free”.

Il ritmo e la melodia di quel momento d’ira gli rimasero attaccati, proprio come quel pezzo di pane, e quando finì di scolarsi la tazza di caffè, si sedette al pianoforte e scrisse quattro note che sarebbero diventate famose almeno quanto le canzoni cantate da Cristina D’Avena.

“Ah, sono un genio!”, esclamò, pensando al tormentone estivo, ai soldi che avrebbe guadagnato e speso per un buon parrucchiere e una barca a vela piena di avvenenti donzelle. Quando rilesse quello che aveva scritto, ebbe l’impressione che il testo fosse un po’ripetitivo. Troppe t.

Così, si recò nella sua taverna preferita dove ordinò una zuppa e fece analizzare il testo a un paio di ubriaconi che se ne stavano a poltrire sopra una panca. “Genio”, esclamarono all’unisono, fischiettando un motivetto che anni dopo Beethoven avrebbe trasformato nell’Inno alla gioia.

Tuttavia, il compositore riteneva il giudizio dei bifolchi importante per il successo commerciale ma ininfluente dal punto di vista artistico. L’indomani si incontrò con il paroliere più stimato dell’Impero Germanico, Herr Mokol, l’uomo che aveva fatto cantare L’uselin de la comare a milioni e milioni di persone.

Appena sentì le note, l’artista si mise a scrivere su un quadernino e lo porse al compositore. C’era scritto, “Mo-to-ci-cletta ta ta ta ta ta ta 10 HP”. Beethoven alzò un sopracciglio e disse, “Mi sembra fuori ritmo”. Mokol lo schiaffeggiò, offesissimo, e se ne andò via canticchiando “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi”.

Beethoven ci rimase male e il suo sogno di far ballare le folle per tutta l’estate con la sua hit incominciò a scemare. “Se non posso sviluppare le parole, allora svilupperò il motivo”, disse tra sè e sé, senza riuscire a sentire niente di quello che si era detto.

Tornato a casa, si rimise al pianoforte e, dopo aver composto un paio di canzoni melodiche napoletane con lo pseudonimo di Nino Von Engel, si mise ad ampliare le note che aveva buttato giù, tirandone fuori una buona mezz’ora sinfonica.

Bisognerà aspettare Robin Thicke per un utilizzo più commerciale del tema e di questo Beethoven ne soffrirà. Le sue ultime parole prima di spirare furono “Robin Thicke è un co******”. Capolavoro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *