Noi diamo per scontato un sacco di cose. La democrazia, la doccia per lavarsi, l’hamburger con le patatine, il frigorifero per conservare il cibo, internet e le ascelle maleodoranti in metropolitana. Ma non è sempre stato così.
Prendiamo per esempio le finestre. Anzi, prendiamone una in particolare. Quella che si trova nel soggiorno della casa dei miei. Una porta finestra, meravigliosa, che si affaccia su un viale alberato pieno di smog, polveri sottili, suoni di clacson e bestemmie provenienti dal traffico cittadino. Che meraviglia, quella finestra.
Quando ero piccolo, nelle buie e fredde sere invernali, la aprivo, andavo sul balcone e poi lanciavo un paio di raudi alla fermata dell’autobus. La gente, che è sempre un po’ nervosetta, si alterava, protestava e credo che, se avesse potuto, avrebbe dato via a un linciaggio. Insomma, era divertente.
Non tutti i bambini, però, nella lunga storia di questo nostro mondo, hanno potuto godere di passatempi così educativi. Infatti, c’èstato un tempo, un tempo molto antico, in cui le finestre non erano state ancora inventate.
E allora andiamo a ritroso, indietro negli anni, fino al momento in cui qualcuno si è accorto che la finestra avrebbe potuto essere una svolta sia architettonica che igienica. Siamo a Babilonia, città della Mesopotamia che si affaccia sull’Eufrate. Babilonia Babilonia, non Cernusco sul Tigri.
Burna, architetto famoso per essere stato il primo della sua categoria ad andare vestito completamente di nero, anche con quarantacinque gradi all’ombra, sta ultimando i lavori di costruzione della sua nuova villa. Tre piani dotati di tutti i comfort: aria condizionata, TV via cavo con schermo da settantacinque pollici, sala giochi, terrazzo con jacuzzi e, soprattutto, direttamente dall’Italia, un bidet per ogni bagno.
E italiana è anche la ditta responsabile dei lavori. Gente che viene dalle valli bergamasche, parla una lingua più astrusa del sumero e però ti tira su un edificio in una settimana.
Il tre gennaio dell’un bel po’ avanti Cristo, la villa è pronta. Burna si aggira per le varie stanze col piglio di un turista che attraversa per la prima volta i corridoi del Louvre. Arrivato al terzo piano, si dirige verso la camera padronale, una stanza di cinquanta metri quadrati che domina dall’alto Babilonia e il fiume Eufrate.
Quando entra, lo attende una bruttissima sorpresa: gli operai non gli hanno montato il Pax dell’Ikea, una combinazione di guardaroba di quasi quattro metri di lunghezza che, secondo i suoi calcoli, un uomo solo è in grado di assemblare in due anni su Giove.
E non è nemmeno la sorpresa peggiore.
La camera è completamente murata, come tutta la villa, e la vista pazzesca di cui aveva parlato ad amici e conoscenti è solo nella sua testa. Come farà ad affacciarsi sul balcone? Un bel problema.
All’inizio pensa di costruire una scala che dal giardino porti su, fino al balcone. Poi, però, si immagina la scena: lui, appena sveglio, maglietta e mutande, sguardo spento, che deve scendere tre piani, uscire in giardino e salirne altri tre tramite scala esterna. Troppa fatica.
Allora gli viene in mente qualcosa. Si arma di coltellino e in un solo mese riesce a fare un foro nel muro. Ci guarda dentro. Vede il grattacielo della Generali. Questi delle assicurazioni erano già megalomani ai tempi. Un buco nell’acqua, se non fosse nel muro. E ancora non riesce ad accedere al balcone.
Ci dorme su. In sogno gli appare suo padre, Burna Burna, che gli dice, “Quello che ti serve è una fi…”, ma si sveglia prima che concluda la frase. Non capisce come la figa possa risolvergli il problema. Cioè, quel problema.
Mentre ci pensa su, gli viene un’altra idea. Questa volta è sicuro che sia quella giusta. Assolda un paio di emigrati italiani, mercenari con esperienza nel traforo del Gottardo, che in quattro e quattr’otto gli traforano una parte del muro. Il buco misura centoventi per duecentoquarantacinque centimetri.
Finalmente, Burna può godersi la vista e andarsene sul balcone, dove sistema subito una griglia. La notte, in camera, si congela. Tra uno starnuto e l’altro, Burna si addormenta. In sogno gli appare di nuovo suo padre, Burna Burna. “Non capisci un beato ziqqurat”, gli dice, “quello che ti serve è una fi…”, ma anche questa volta l’architetto si sveglia prima che il padre riesca a concludere la frase.
Non riesce a capire come mai il padre abbia questa fissa anche da morto. Passa un altro giorno con quel buco nel muro, e una notte, e un altro giorno e un’altra notte. Però, quella notte, in sogno, suo padre gli appare di nuovo.
“Burna”
“Padre”
“Burna, quello che ti serve è una finestra!”
“Una finestra?”, domanda Burna. “Ah! E io che pensavo…”
“Burna, quando mai hai pensato in vita tua?”
“Padre, ma che cosa è una finestra?”.
Il padre ci pensa un po’.
“Be, figlio mio, una finestra è come… è come una figa, solo con le ante”.
A quel punto Burna si sveglia e poche ore dopo il primo esemplare di porta finestra, con vista da diecimila euro al metro quadro, fa la comparsa nella storia di questo mondo. All’incirca.