Concerto per carpa

Do re mi fa sol la si do. Questo è il grande incipit con cui il talentuoso musicista e compositore Settimio Solfeggio apre il libro che lo ha reso celebre e che ha ispirato tanti musicisti contemporanei, “Darsi delle arie è diverso dallo scriverne”. Una sezione di più di cento pagine è dedicata alla nota si. L’autore spiega in modo didascalico ma molto efficace come evitare di confondere la nota con il pronome riflessivo atono di terza persona, un errore in cui cadono molti e che il musicista considera la causa di quell’analfabetismo musicale in cui è sprofondato il paese che si vanta di aver inventato il bel canto.

Tuttavia, sebbene nessuno voglia sminuire l’importanza del libro, la grandezza artistica di Settimio Solfeggio è dovuta a ben altro. Mi riferisco al celebre concerto per carpa. Nel 1992 il compositore era in piena crisi creativa. Dopo diversi lavori che non avevano portato il successo desiderato, come le opere “Il pisciatore mascherato” e “Roncopatia”, alcuni concerti da camera iperbarica e delle sonate per violino in lago maggiore, Settimio Solfeggio si ritira per un periodo di riflessione nella sua casa di Governolo, in provincia di Mantova. Lì, conscio che per recuperare l’ispirazione deve focalizzarsi su cose più concrete, passa le giornate a sgusciare noci e a schiacciare arachidi.

Un tardo pomeriggio il suo caro amico Oreste Bellini Baraldi, musicista sopraffino e unico uomo al mondo capace di accordare un violoncello a colpi di pancia, lo trascina fuori di peso per portarlo a pescare sul Mincio. Settimio non ha mai amato la pesca, confondendola sempre con il frutto, ma ritiene che, dopo dieci mesi rinchiuso in casa, un po’ di aria non possa che fargli bene. Con in mano la canna, Settimio attende, immobile, fischiettando dei motivetti dodecafonici. Viene subito zittito dall’amico. Il Bellini Baraldi gli spiega che la musica seriale infastidisce la fauna ittica e produce delle specie geneticamente modificate che contribuiscono al successo della trap.

Passa un’ora, ne passano due. Il sole è tramontato, Settimio sbadiglia e pensa improvvisamente alla nota la. La sua sua amata nota la che, letta al contrario, è al. Non sa ancora cosa farci, ma è sicuro che da questa incredibile intuizione potrà tirarci fuori qualcosa di interessante. Un altro libro. Forse un concerto. La soluzione per la sua vescica ingrossata. Visualizza già i musicisti, seduti, con gli strumenti in mano, un tappeto persiano musicale che inonda lo spazio intorno e lui che, con mano e bacchetta, scandisce il tempo, che non è mai abbastanza, e dà indicazioni sulla dinamica, anche quella di coppia. Che incredibile melodia. Possibile che sia venuta in mente proprio a lui? La canticchia e poi realizza che è Mamma maria dei Ricchi e Poveri. Sottovalutati, gruppo incredibile, grande talento musicale, il baffo lo avrebbe visto come un eccellente basso nel ruolo del piscione afflitto dai sensi di colpa de “Il pisciatore mascherato”.

Il flusso onirico si interrompe bruscamente, qualcosa ha abboccato. Si ricorda delle lezioni che impartiva sua madre a tavola. “Moriremo, moriremo tutti”, amava ripetere, scolando la pasta. “Non è mai troppo tardi per chiedere, ma rispondere è cortesia, oppure no”, al secondo bicchiere di vino. Ma tutto questo non c’entra niente. “Solo gli stupidi abboccanno”, ed è proprio quello che pensa mentre la canna si curva, si piega, ma non si spezza. E però, pensa, per quanto uno possa essere stupido, deve esserlo proprio tanto per starsene sotto metri e metri di acqua solo per uno spuntino a base di vermi. No, anche se il mondo è pieno di idioti, ci deve essere una soluzione più semplice, come sole, cuore e amore.

“Tira, Settimio, tira, porca di quella puttana”, gli urla l’amico, che quando è eccitato impreca come uno che, di notte, calpesta con il piede uno di quei pezzi di lego fatti apposta per indurre l’uomo a bestemmiare. Settimio non se lo fa ripetere due volte, ma tre, perché ci mette sempre un po’ a risalire la corrente dei suoi pensieri. Allora inzia a tirare, con tutta la forza che ha in corpo, che non è molta, perché quei mesi a sgusciare e schiacciare gli hanno lasciato delle mani piene di calli e un corpo fragile e indebolito. Oreste capisce che l’amico va aiutato. Declamando l’Infinito di Leopardi, che gli ricorda la sua prima moglie, si posiziona dietro di lui. Insieme, tirano la canna verso di loro, tirano, tirano. “Porca di quella puttana, Settimio, dai che ce l’abbiamo quasi fatta!”. E alla fine, dopo uno sforzo titanico che lascia Settimio quasi esanime, dall’acqua esce una carpa, quindici chili di carpa che si dimenano per la battaglia finale della vita.

“Porca di quella puttana, Settimio, hai visto? Questo è un bue, un bue con le branchie, porca di quella puttana. Stasera lo infiliamo nel forno e viene fuori che è una meraviglia”. “No”, fa Settimio, mettendo il suo corpo tra la carpa e Oreste. “Come no?”, gli domanda l’amico. “Ho detto no. Questa carpa non va dentro a nessun forno”. Non è che non gli piacciano i pesci. La pesca, è un’altra cosa, la confonde con il frutto eccetera eccetera, ma i pesci gli piacciono, gli piacciono proprio. È una questione di gusto, ma anche di estetica. I pesci sono belli, giovani e belli, come gli eroi della mitologia greca. Non è nemmeno mosso da compassione, perché dopo mesi a sgusciare e schiacciare, la compassione non ti ricordi nemmeno che cosa sia.

No, Settimio ha visto tutto con nitidezza, per la prima volta. Il podio, il pubblico, l’orchestra, le note. Le pause. Il conto del commercialista. “Portami a casa”, intima al Bellini Beraldi, che non capisce, non ci riesce, e pensa alla carpa, al forno, e poi guarda l’amico e non sa più come orientarsi, ha perso tutti i punti cardinali.

Settimio si chiude nel suo studio, con di fianco la carpa, che farà imbalsamare, e inizia a scrivere. Compone. Passa una settimana, ne passano due. Non si muove da quella sedia per un mese. Non dorme, non mangia, perde peso, ha le vesciche sul sedere. Allucina. Sente sua madre, che canta. Ma ma ma, mamma maria ma… Sua madre si trasforma nel baffo dei Ricchi e Poveri. Prova una gioia improvvisa, piange, si mangia le unghie. Canta anche lui, ma stona terribilmente e per un breve momento desidera diventare un macellaio e tagliare delle fette di bresaola fini fini. Che bella la vita. In un mese e mezzo finisce di scrivere il pezzo. Concerto per carpa e orchestra in si bemolle maggiore, do, re, mi, fa fa. Passa davanti allo specchio e non si riconosce. Guarda meglio e si accorge che non è uno specchio, ma un dipinto raffigurante una natura morta. Tira un sospiro di sollievo, non ha mai desiderato assomigliare a un cesto di frutta marcia.

Due mesi più tardi, un giovedì sera, di quelli che è difficile dimenticare, non come quando rientri la sera, apri la porta e in casa c’è il caos totale, urla, salti, un figlio sta vomitando sul divano appena comprato mentre l’altro scrive sui muri messaggi satanici, ecco, un giovedì sera memorabile, viene eseguito alla Scala di Milano, per la prima volta, il concerto per carpa e orchestra in si bemolle maggiore, do, re, mi, fa fa. La direzione è affidata allo stesso maestro Settimio Solfeggio, il cui ingresso viene salutato con un boato del pubblico e suoni di vuvuzela dal loggione.

Si incomincia con un allegro maestoso, un movimento dalla ritmica sincopata caratterizzato da suoni prodotti in successione da timpani, gran cassa, rullanti, tom, la scuola di aerofagia e dalla carpa imbalsamata che un esperto percuote con violenza sulle teste degli orchestrali.

Nel secondo movimento, l’Adagio adagio quasi in silenzio, in cui gli archi sviluppano una melodia di una nota sola, il flautista soffia dentro la bocca della carpa. Non ne esce nemmeno una nota e infatti nella partitura appare come una pausa attiva di circa quindici minuti.

L’ultimo movimento, un prestissimo, è un grido per la libertà, un grido leggermente afono. Viene lasciata totale libertà ai musicisti di improvvisare delle variazioni sul tema di Mamma Maria durante il gioco delle sedie musicali. Il maestro di pesce canto esegue degli accordi diminuiti avvicinando la carpa al vibratore di sua moglie. Alla fine del terzo tempo rimane solo il baffo dei Ricchi e Poveri seduto su una sedia, al centro del palco, che produce dissonanze ingurgitando dell’acqua gasata.

Il pubblico, visibilmente in stato di shock, fa partire un applauso che fa arrabbaiare il maestro percussionista, che giudica una ritmica piuttosto scadente tutte quelle mani che battono all’unisono. Nel loggione si legnano con le vuvuzela mentre qualcuno cerca di fischiettare il leit motiv del concerto.

Carlo Trombetta, critico musicale del Tenore di vita, scrive che quello a cui ha assistito assomiglia a “una scoreggia, una di quelle trattenute che poi escono lo stesso, creando imbarazzo per chi le ha prodotte”. A causa di problemi legati alla traduzione, la critica, poco favorevole nei confronti dell’opera, viene recepita a livello internazionale come l’apoteosi di un trionfo. È così che Settimio Solfeggio entra nell’Olimpo dei musicisti e paragonato a un Mahler incapace di intendere e volere.

A oggi, a trent’anni dalla prima, il concerto è stato eseguito settantamila volte, senza interruzioni, dagli stessi musicisti, una prova di resistenza che ha lasciato senza fiato numerosi maratoneti, oltre alla sezione dei fiati. Ultimamanete, a causa delle proteste delle associazioni animaliste, la carpa è stata sostituita da delle olive taggiasche.