Era una giornata importante. Presto avrei varcato la soglia del grattacielo più alto della città. Al trentaquattresimo piano mi sarei annunciato alla reception, sono Uberto Ueilà, ho un appuntamento con il dott. Luccio Gozzo.
Mi avrebbero fatto accomodare, poi accompagnato in sala riunioni dove, davanti al dott. Gozzo e alla sua squadra, avrei presentato l’innovativo prodotto che avrebbe finalmente risolto uno dei fastidiosi problemi dell’umanità: la crescita dei peli nelle orecchie.
Mentre ripetevo tra me e me la presentazione (Il pelo nelle orecchie è come il sandalo con il calzino bianco, un pugno nello stomaco estetico che contribuisce al degrado del concetto del bello. Signore e signori, oggi non sono qui a rappresentare Uberto Ueilà, ma centinaia di milioni di persone che esigono un aspetto curato e qualche Mi piace in più sui loro profili social…), mi si presentò davanti agli occhi un’immagine nitida di mio padre che mi diceva, Uuberro, cortula pff antemro, sempre! Da quando portava la dentiera, non riuscivo più a capirlo.
Arrivai qualche minuto in anticipo. Entrai nel bar poco più avanti e ordinai un cappuccino, una brioche e una spuntatina ai capelli. Il taglio era da urlo, il cappuccino da dimenticare.
Guardai l’orologio. Ci siamo, mi dissi. Camminai all’indietro per migliorare la forza e la postura e, una volta entrato nel palazzo, mi annunciai al portiere. “Buongiorno, sono Uberto Ueilà. Ho un appuntamento con il dott. Gozzo”.
Il portiere, un tizio più largo che lungo con dei lineamenti che ricordavano un pitbull nel momento in cui azzanna la preda, mi squadrò dall’alto in basso. Più in basso che altro. “L’ascensorra al Trentaduesszimo pian-no è”, mi urlò a due centimetri dal volto, esibendo il suo accento sardo e scompigliandomi la perfetta acconciatura, creazione unica del maestro barista.
L’ascensorra? Pensai a una licenza poetica, oltrepassai l’ominide e raggiunsi l’ascensore. Sopra il bottone c’era scritto, a carattere cubitali, “Vietato toccare l’ascensora. I trasgressori saranno puniti secondo l’articolo 609-bis del Codice penale”. Rimasi a fissare il cartello, cercando di estrarne un senso.
Mi ricordò quella volta in cui Filippo Landini Cipolla, mio compagno di banco degli ultimi tre anni di liceo, si tolse una scarpa durante la lezione di letteratura italiana e iniziò a mangiarsela. Lo osservai attonito durante tutto il pasto, chiedendomi come fosse possibile ridurre in quel modo un paio di Air Jordan. Il professore applaudì il gesto, collocandolo dentro al filone futurista.
Tornai dal portiere, impegnato nella lettura della Gazzetta dello Sport. “Mi scusi”, gli dissi, cercando di attirare la sua attenzione. La targhetta attaccata alla giacca aveva scritto sopra Arturo Gavino Hofsteadter. Non mi suonava come il tipico cognome sardo. Il portiere alzò lo sguardo, poi un sopracciglio e mi urlò “L’ascensorra al Trentaduesszimo pian-no è”.
Gli feci presente il problema. “Mi scusszi, ma lei va in girro a toccarre le signorinne che non cono-sce?”. La mia espressione valeva più di qualsiasi risposta. “E allorra, qui la stessa cossza è. La chiammi, le faccia i complimenti, prenda un appuntamento. Faccia il brillante” “Il brillante?”, ma Hofsteadter si era di nuovo immerso nella lettura del giornale.
Tornai all’ascensora. Che cosa potevo dirle? Provai con un “Ascensora? Ascensooora?”, ma l’ascensora se ne stava là, ferma al trentaduesimo piano. Serviva qualcosa di più articolato. “Ascensora? Non ci conosciamo, sono Uberto Ueilà. Il Ueue per gli amici. Ho sentito tanto parlare di te. Se hai voglia di fare due chiacchiere, sono qui. A pian terreno. Ho una cravatta blu”.
Niente. “Hai un bottone che è la fine del mondo. Davvero” “Una porta proporzionata e sinuosa come la tua non l’avevo mai vista” ‘”Spritzino? Negroni sbagliato?” “I tuoi pulsanti splendono come stelle che brillano nel cielo”. Avevo imboccato una strada senza uscita.
Poi mi ricordai di una cosa. “La pattumiera la porto giù io”. In un paio di minuti l’ascensora arrivò a piano terra e spalancò le sue porte. Entrai. Dentro c’erano trentaquattro pulsanti e un cartello. “Vietato toccare i pulsanti dell’ascensora. I trasgressori saranno puniti secondo l’articolo 609-bis del Codice penale e costretti a bere un cappuccino a fine pranzo”. In quel palazzo non scherzavano per niente.
Diedi un colpo di tosse. “Ascensora, dovrei andare al trentaquattresimo piano. Mi ci porti? Poi ci beviamo una sciocchezza”. Mentre iniziava a salire, cercai di rompere il ghiaccio “Devo incontrare il dott.Gozzo. Per me è l’appuntamento della vita. Forse il più importante”.
L’ascensora oscillò per un paio di secondi, spense e accese la luce e si fermò al quattordicesimo piano. Stavo per schiacciare il pulsante, ma mi trattenne il pensiero del cappuccino a fine pranzo. “Ascensora, per piacere, non farmi arrivare in ritardo. Ti prego”.
La mia disperata richiesta di aiuto non ottenne alcun effetto se non un altro breve movimento oscillatorio. Chiusi gli occhi, inspirai profondamente e cercai di trovare una soluzione. Avrei potuto uscire dalla botola in alto e arrampicarmi per venti piani su per la fune d’acciaio, ma nell’unico film che avevo visto e in cui avevano utilizzato questo stratagemma erano morti tutti. E poi mi sarei stropicciato il vestito.
Mi venne un’idea. Riaprii gli occhi. “Vuoi parlare?”. L’ascensora spense e accese la luce una volta a lungo, poi brevemente. E poi tre volte a lungo. Era un no in codice morse. Ringraziai il corso di sopravvivenza a cui mi aveva iscritto mio padre quando avevo tre anni e mezzo.
“Dai, cosa c’è?”. L’ascensora rispose ancora negativamente, ma ormai avevo capito. “E per l’appuntamento che ho con il dott.Gozzo? Per quello che ho detto? Sono stato insensibile? No? Per cosa allora?”. Accensioni e spegnimenti, corto, lungo, lungo, corto.
“Le altre ascensore? Quali ascensore?”. Accensioni e spegnimenti. “Schiaccio i bottoni a tutte le ascensore? Ma quali ascensore? Io conosco solo ascensori…Cosa? L’ascensore del mio palazzo è un’ascensora? No, guarda, non è possibile…No, non fare così…Adesso calmati un attimo. Ascoltami”.
L’ascensora precipitò di cinque piani, spettinandomi il ciuffo. “Sentimi bene. Non c’è nessun’ altra ascensora. Neanche sapevo che il mio ascensore fosse in realtà un’ascensora… Come? Ah, era un ascensore, ma adesso…Va bene, comunque sia, tu sei la mia unica ascensora, davvero… Non li tocco più i tasti del mio ascensore? E come faccio a…Sì, va bene, promesso. Niente tasti. Faccio le scale, sono solo quattro piani. Adesso, ti prego, andiamo su fino al trentaquattresimo piano? Per favore”.
A quel punto l’ascensora si calmò e mi portò a destinazione. “Ci sentiamo dopo”, le dissi, accomiatandomi. Lei aprì le porte ed ebbi per un momento la sensazione di vedere una lacrima scorrere da uno dei pulsanti. Ma forse era solo olio.
Ad attendermi c’era l’assistente del dott.Gozzo, la signora Signorina, che mi accolse con una stretta di mano erculea che mi lasciò dolorante per qualche minuto. “Il signor Gozzo e il suo team la stanno aspettando. Prego”. Mentre percorrevo i lunghi corridoi, non potei trattenermi dal farle una domanda.
“Mi scusi, signora Signorina, ma…l’ascensora…” “L’ascensora? L’ascensore intende?” “No, no, l’ascensora. Quella con cui sono arrivato. Con il cartello” “Quale cartello?” “Quello che vieta di toccare i pulsanti” “Mi scusi, non la seguo. Di cosa sta parlando?”.
Prima che potessi rispondere, mi aprì una porta. “Il dott. Gozzo”. Vidi una sagoma stagliarsi davanti a una finestra che illuminava tutta la stanza. Mi avvicinai. “Buongiorno dott. Gozzo”. Si voltò, e lo riconobbi. Il portiere. “Aio, l’ascensorra al Trentaduesszimo pian-no è!”.
Mi misi a urlare e mi svegliai. Erano le otto. Avevo due ore prima dell’appuntamento. Quando entrai in ascensore, ebbi un attimo di esitazione prima di schiacciare il bottone. Poi mi strinsi il nodo della cravatta e mi affrettai, che non avevo ancora fatto colazione.