Fai di me quel che vuoi, sono qui
Faccia d’angelo
David di Michelangelo
…
Oh, sì, sì, ci son cascato di nuovo
Tu sei mia, tu sei tu, tu sei più
Già lo so, che poi lì
Che non so più poi chi trovo
Ci sono infiniti modi per scrivere una canzone. C’è chi si sveglia la mattina con una melodia in testa, e quella melodia è Yesterday. C’è chi si mette davanti al piano e vocalizza fino a quando non esce qualcosa che possa essere usato almeno come antifurto. C’è chi si siede sul cesso e tira fuori robe che ci propinano poi come tormentoni per tutta l’estate. L’arte creativa.
Nel caso dell’autore di questa canzone, il cui nome è quello del semidio greco famoso per la tallonite e il cui cognome è il maschile di Laura, le cose sono andate diversamente.
Un giorno, per trovare ispirazione, almeno così mi ha raccontato il cugino del cugino di mio cugino, decide di andare a Firenze a visitare la Galleria dell’Accademia. Quando arriva, si trova davanti una fila lunghissima. Così tanta gente non l’aveva vista neanche ai suoi concerti.
Dopo più di un’ora, durante la quale scrive un paio di canzoni distanti dal capolavoro solo per qualche nota, tipo il si, riesce finalmente a entrare. Gironzola per un po’, ammira i capolavori del Duecento e del Quattrocento, un po’ sbiaditi rispetto alle foto che si possono fare oggi con un discreto smartphone, e si imbatte nella maestosa statua del David di Michelangelo.
L’autore è folgorato da tale bellezza. Rimane lì ore a osservarlo e, pur rapito da tale splendore, non riesce a capacitarsi del fatto che una statua così enorme abbia un pene così piccolo. D’altro canto, il pene, a una statua, non è che serva poi così tanto. Alle 18 e 50 viene trasportato dagli addetti di sala fuori dal museo.
In treno, tornando verso Roma, scrive questa canzone. L’inizio, ora lo capisce anche il figlio del Tullio che in fatto di deficienza è un vero campione, è una dedica alla statua michelangiolesca, furfante rubacuori che, oltre a stare in posa, non ha mai mostrato altri talenti.
La canzone, però, ha una svolta improvvisa. Misteriosa. Dall’arte rinascimentale a un cambio repentino di luogo, tempo, azione e sesso, senza nessun rispetto per le unità aristoteliche, la narrazione e il sottoscritto che deve pagarsi l’affitto con queste delucidazioni. Al genio, però, non si comanda.
Nel testo compare un’entità misteriosa, possessiva, tautologica e un pelo algoritmica. Per la proprietà transitiva della seconda persona singolare, quel tu che è sempre un tu diventa un più, e quindi mia è più, ovvero un aggettivo possessivo aumentato.
Che cosa deduciamo da tutto questo? Niente, a parte il fatto che per questo calcolo logico ho avuto bisogno di due giorni, quindici caffè e un pacchetto di mentine.
Anche l’autore sembra perplesso dal suo stesso ragionamento e, con addosso una pelliccia sintetica prodotta in Bangladesh da una banda di spacciatori di zafferano, perde la retta via e non sa più dove si trova all’interno dell’analisi grammaticale.
Vaga negli spazi vuoti del testo alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, perde il senso, lo ritrova, enuncia dei vocaboli, le ginocchia piega un po’, poi scodinzola così, ma no, il ballo del qua qua no, fischietta un’arietta e canta con Orietta.
Insomma, capolavoro.