Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai
…
E guarirai da tutte le malattie
Perché sei un essere speciale
…
Vagavo per i campi del Tennessee
Come vi ero arrivato, chissà
Non hai fiori bianchi per me?
Antonio Spadavecchia non si vedeva molto in giro. Se ne stava la maggior parte del tempo chiuso in camera, terrorizzato all’idea di potersi ammalare.
Nel corso dell’anno 1993 aveva telefonato al dottor Arnaldo Bertoldo, il suo medico curante, centoquarantatre volte, sempre convinto di avere una malattia incurabile. Solo l’11 febbraio di quell’anno, una giornata invernale che godeva di una temperatura mite, il dottore aveva deciso di andare a visitarlo. Il tumore al cervello si era poi rivelato essere solo un’otite media che Spadavecchia aveva curato con sette giorni di antibiotico.
Lo Spadavecchia, le rare vole che gli toccava di uscire, indossava una maschera antigas e un paio di guanti, una sciarpa e un cappellino di lana. Anche d’estate. Quando tornava a casa, disinfettava tutto con la candeggina.
Ragazze non ne aveva perché solo l’idea di un bacio pieno di germi lo angustiava. Amici, nemmeno, perché qualsiasi cosa gli si avvicinasse a meno di un metro e mezzo di distanza lo considerava un pericolo mortale.
Nel 1994, certo di essere un malato terminale, si era licenziato dal lavoro per potersi godere in santa pace gli ultimi mesi di vita. Antonio Spadavecchia è morto nel 1996, sano come un pesce, scivolando nella vasca da bagno.
La vita di Antonio Spadavecchia deve avere ispirato la canzone di Franco Battiato, il cui incipit sembra una dedica involontaria al problematico malato immaginario. Tuttavia, andando avanti nell’ascolto, si capisce che quello di cui parla l’autore non è un ipocondriaco, ma il suo opposto.
Qui risuona l’eco dell’influenza nietzschiana. È chiaro che si delinea la figura di un Übermensch, del superuomo che, manifestandosi nella sua essenza più autentica, e abbandonando i falsi valori etici e sociali che hanno creato generazioni di schiavi, può assumersi tutto il peso della volontà di potenza e sconfiggere così, per sempre, le malattie. O, almeno, smettere di soffrire terribilmente quando la temperatura corporea tocca i trentasette gradi e due.
Da notare la strofa sui campi del Tennesse che, come un gancio destro sferrato da un pugile professionista, destabilizza l’ascoltatore, che vacilla alle ricerca di un senso. Ormai sconsolato, accende la televisione nella speranza di un barlume di verità che trova nei programmi di intrattenimento domenicali.
Gravitiamo ancora nell’ambito del filosofo prussiano. Più precisamente, emerge qui il concetto di eterno ritorno come identificazione tra essere e divenire, in cui non importa dove si è, né come ci si è arrivati, e nemmeno che tipo di scarpe si indossa.
È il ritorno del differente, che presentandosi di nuovo, ma diverso, ci rimane male quando non viene accolto con dei fiori bianchi. Dal differente all’indifferente è un attimo.
Come non identificarsi con tutta questa pregnanza di significato, soprattuto dopo aver mangiato un paio di funghetti allucinogeni. Capolavoro.