Siamo qui, pieni di guai
A nascondere quello che sei dentro quello che hai
Ma com’è, ma cos’è, ma dov’è?
Siamo qui, soli e delusi
A confondere quello che sei dentro quello che usi
Ma com’è, ma cos’è?
Molti anni fa, quando frequentavo le lezioni di Semiotica e mimiche facciali, conobbi una ragazza. Si chiamava Trebbiatrice, ed era bellissima.
Capelli lunghi fino alle spalle (quelle del tizio che le sedeva dietro a lezione), occhi di un verde intenso, quasi castani, testa attaccata al collo in modo splendidamente armonioso, mascella volitiva e il cervello, oh, che cervello. Era una che pensava. Magari non sempre con la sua testa, ma pensava.
Un giorno, durante pausa, le chiesi, “Trebbia, tu ci pensi mai al senso della vita?” “Certo, quasi sempre. Mi piacerebbe averla un po’ più snella, ma bisogna accettare quello che si ha. Cosa faremmo senza vita? Come faremmo a portare i pantaloni?”. Che ragazza, così colma di pensiero laterale.
Iniziammo a frequentarci. Andavo a trovarla a casa sua, e parlavamo, parlavamo, parlavamo. Non si scopava mai. Così, quando tornavo a casa, analizzavo il testo di Boys di Sabrina Salerno e mi toccavo, ma non troppo, perché volevo diventare un critico, un critico di qualcosa, e se diventi cieco il percorso si complica.
Un fine settimana di inizio estate (me lo ricordo ancora, la canicola, i miei vestiti pregni di sudore, le strade vuote, una coppia di bonobo che cammina sul marciapiede – o forse erano i miei genitori) vado a casa sua. Mi accoglie con una maglietta striminzita che mette in risalto le sue pere atomiche, mi prende la mano e dice, testuali parole, “Oggi ho voglia di farlo”.
Finalmente, penso, mentre già scorro in avanti le scene del mio film personale. Mi fermo a quella in cui io, nudo a parte un cappello da cowboy in testa, la monto da dietro declamando versi di D’annunzio.
“Voglio aprirmi completamente con te”, continua, e io intanto la seguo ma già non capisco più niente, perché quando mi parte l’ormonella, tutto quello che resta di umano in me scivola via insieme al sudore provocato da tutta quella afa.
Arriviamo in camera sua. Trebbiatrice chiude la porta e inizia a spogliarsi. Quando è nuda, si apre. A metà. Come un pacco di Amazon, quando passi il taglierino in mezzo allo scotch. Rimane lì, aperta, con tutti gli organi interni in bella mostra.
“Be’, allora?”, mi domanda, come se si aspettasse qualcosa da parte mia. Io onestamente ci rimango un po’ male, preferivo decisamente le pere. E di polmoni ne ho visti di meglio.
Mi è tornato in mente questo episodio mentre analizzavo il testo del grande Vasco, che la nipote di mia nipote mi ha detto non c’entrare niente con l’esploratore portoghese che ha raggiunto per primo le Indie via mare. Dovevo capirlo prima, ma tutte quelle vocali nelle sue canzoni tendono a strozzare l’ossigeno diretto verso il mio cervello.
La ragazza, nel testo, nasconde quello che è dentro e meno male. A Vasco non gli auguro di vivere la mia stessa esperienza. Non capisco però perché si faccia tutte queste paturnie. Si vede che sta invecchiando, ha anche l’occhio sempre un po’ lucido.
Il terzo verso inanella una serie di domande criptiche a cui nessuno può dare una risposta tranne Giulio, che da quando lo conosco non ha mai sbagliato una domanda di Chi vuol esser milionario.
Dopo essermi spaccato la testa a cercare di risolvere l’irrisolvibile, mi sono deciso e ho telefonato a Giulio. Lui mi ha detto che è la crema idratante, e quando gli ho chiesto di spiegarsi meglio, ha riattaccato. Da qui, forse, la solitudine e il senso di delusione, tipici degli artisti e degli ammaestratori di pulci.
Difficile, lo ammetto, capire il verso successivo, perché confondere l’interno di una persona, magari con il suo esterno, richiede delle doti di stupidità non indifferente, e non è il caso del nostro autore.
La strofa si conclude con le stesse domande, a cui manca il dove, che è uno stratagemma geniale per far sì che ogni ascoltatore si domandi dove sia andato il dove.
Ho richiamato Giulio per chiedere conferme circa il significato dell’ultimo verso e alcune note spese che mi sono arrivate a nome suo, e mi ha risposto, un po’ seccato, che, quasi sicuramente, è la Kamčatka. Porca vacca, mi son detto. Capolavoro.