Teorema – Marco Ferradini

Prendi una donna
dille che l’ami
scrivile canzoni d’amore
mandale rose e poesie
dalle anche spremute di cuore

Prendi una donna
trattale male
lascia che ti aspetti per ore

Evaristo Martelli era un genio. Questa era l’unica parola con cui si poteva definirlo. Genio. Qualcuno provò con straordinariamente intelligente, ma non rendeva l’idea. Il mio cane era straordinariamente intelligente, ma niente in confronto all’Evaristo Martelli.

A tre anni, senza saper né leggere né scrivere, cosa che imparerà a dicott’anni compiuti, era già in grado di risolvere alcune funzioni algebriche. “Non tutte”, aveva commentato, con una punta d’invidia, l’ordinario della cattedra di matematica di un’importante università di cui preferiamo omettere il nome.

A nove anni conosceva tutti i dodici grandi teoremi della matematica e a quindici si era laureato in matematica discutendo il teorema che porta il suo nome, il teorema di Evaristo.

L’enunciato è il seguente: in ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente all’unione dei quadrati costruiti sui cateti oppure se non viceversa. Sì, molto simile al teorema di Pitagora, da cui se ne distacca per alcuni svarioni grammaticali.

Evaristo Martelli, un genio. Eppure, genio o non genio, Evaristo Martelli soffriva. Forte nelle relazioni d’insieme, ma asino in quelle amorose. Puntualmente veniva scaricato, soffriva, piangeva, mangiava schifezze per settimane, ingrassava, si autoflagellava guardando i programmi televisivi della domenica pomeriggio e poi, bam, ci ricascava.

Anche i suoi risultati matematici ne soffrivano, sempre più trascurati a causa del suo vuoto sentimentale e del sesso a pagamento.

Quello che ho capito della vita è che l’unico teorema che conta davvero è stato scritto, anni fa, da Marco Ferradini. Insieme a Tommaso Pannolino (famoso per il suo teorema del Rolex secondo cui i Rolex venduti in spiaggia, e pure la loro radice quadrata, sono dei tarocchi) ho fatto un paio di telefonate, appurando che Marco Ferradini non ha mai ricevuto la medaglia Fields.

D’altronde, cosa importa una medaglia, se non vale almeno una decina di milioni di euro, davanti al dolore e alla sofferenza?

Ferradini ci esorta a scrivere canzoni d’amore per la donna che amiamo, ma non ci dice cosa dobbiamo fare se le canzoni non sappiamo scriverle.

Ci viene in soccorso madre natura, e in particolare l’uccello del paradiso superbo. Per corteggiare la sua bella, questo strano animale, che non so perché mi ricorda la mia professoressa di italiano, allunga le penne del dorso e del petto a ventaglio, sbatte le ali e inzizia a saltellare come un forsennato. Forse sono le droghe, difficile dirlo. Certo, non ce lo vediamo Evaristo Martelli esibirsi in questa prova da ginnasta olimpico, ma mai porre limiti alla provvidenza.

Dove invece permane un dubbio semantico è sull’interpretazione di quella spremuta di cuore. Il Perdindirindini, che per anni ci ha spiegato i testi delle canzoni di Ruggero Leggero, un cantautore pop operistico che ha acquisito imperitura fama al Centro commerciale Le babbucce di Tradate sul Minchio, sostiene che il significato non possa essere letterale.

L’Arguto, il maggiore interprete delle prime due note scritte da Beethoven, si chiede quale sia il gusto di una spremuta.

Alexia, raggiunta telefonicamente da un venditore di un operatore telefonico, ha ammesso di non saperne molto ma che una spremuta di cuore senza sole e amore non avrà mai spazio nelle sue canzoni.

Senza soffermarci su ogni verso, meritevole di un’analisi approfondita che il mio cervello, ma certamente anche il vostro, non è in grado di eleborare, arriviamo alla strofa incriminata: Prendi una donna/trattala male/lascia che ti aspetti per ore.

Bene, trent’anni fa, stavo insieme a una ragazza di nome Lambretta. Arrivavo sotto il suo portone, citofonavo. “Scendi?” “Arrivo subito”, rispondeva, e poi mi toccava aspettarla almeno tre quarti d’ora. Una volta, due volte, tre volte.

Dopo un paio di anni la misura era colma. Una sera telefono e le dico che sarei arrivato lì in cinque minuti. “Fatti trovare pronta, per piacere”. Lei rispose, certo, non ti preoccupare. Ma io non mi feci abbindolare come al solito. Apparecchiai la tavola, cucinai un risottino niente male, mi versai un bicchiere di vino, feci pure un pisolino. Quando arrivai sotto il suo portone, erano passate più di due ore. Non c’era nessuno. Scese tre quarti d’ora più tardi, radiosa. “Sono in ritardo?”, mi domandò.

Da allora mi dedico anima e corpo all’interpretazione dei testi musicali. E comunque, capolavoro.