A strisciare sui gomiti

Questo post si riferisce a eventi accaduti nell’aprile 2021. Ogni riferimento a cose, persone, animali e pizze con l’ananas è assolutamente non causale. Tutto quello che è stato scritto è accaduto per davvero, o forse no, ma tanto chisseneimporta.

D. si è raffreddato e lo è rimasto per quasi dieci giorni. Un po’ di febbre, raffreddore e una tosse persistente che sembrava di stare al Pier 39 di San Franscisco.

In tempi pandemici, meglio tamponare. Diamo una spolverata alle sue cavità nasali, e il test, quello fai da te che appena lo apri ti trasforma in un virologo, dà risultato negativo. Che è positivo. Solo che la tosse non passa e, quando J. gli fa trangugiare un intruglio imbevibile che prende il nome di sciroppo calmante per la tosse, D. impallidisce, si comprime per poi dilatarsi e svuotare lo stomaco di tutto quello che era riuscito a fagocitare a colazione, che era abbastanza.

Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, un vaso di tre anni e mezzo con i capelli a caschetto. A quel punto mia moglie, dopo una riunione con il consiglio di amministrazione, decide di portarlo dal pediatra. Anzi, la pediatra, per non offendere i paladini della declinazione di genere.

All’ambulatorio (o ambulatoria?) D. si sottopone a un altro tampone, che risulta poi essere negativo. Che è positivo. La pediatra (e il pediatro?) ci dice non preoccuparci, che è solo un raffreddore, e così ci inginocchiamo e benediciamo il Signore che ci manda il raffreddore, la tosse e chili di catarro e bruciamo sull’altare i fazzolletti di D. per ringraziare ancora l’Onnipotente (o forse la Onnipotenta) e mandare affanculo il Coronavirus.

Il giorno dopo, passata la nottata ad ascoltare il concerto sinfonico di colpi di tosse di mio figlio, mi sento spento. Apatico. Soggetto a pesanti colpi di sonno. La lezione di tennis di A. è il colpo di grazia. Mentre lui si destreggia tra dritti e rovesci, io gioco nel parco giochi di fianco con D. Un’ora di sofferenza, quando non hai più controllo sulle palpebre che, come la saracinesca di un negozio a ferragosto, rimangono serrate.

Tornati a casa, so che dovrò stendermi per qualche minuto, essendo già ridotto, dal punto di vista cerebrale, a un vegetale. Mi sento un ficus benjamin.

“Facciamo un po’ di pausa, adesso”, dico a D., “Il papà è molto stanco e deve riposarsi un pochino”. Parlo di me in terza persona non per darmi un tono ma perché ormai è evidente la mia trasformazione in ficus benjamin. La metamorfosi più ecclatante dopo quella di Gregor Samsa.

Non faccio tempo a sdraiarmi sul letto, quello nello studio, che D. compare con il kit del dottore. Bisogna rabberciare il papà, così può recuperare le forze e rimettersi a giocare. Prima mi percuote con lo stetoscopio. Assenza di battito, tranne quello dello stetoscopio, che mi batte in testa con una certa violenza. Quindi estrae un martello per cesellarmi il ginocchio. Peccato, avrei sempre voluto diventare un ballerino. Un paio di inziezioni sul braccio, una sbirciatina nelle orecchie, qualche grattatina con la sega per l’amputazione della gamba, una trapanata ad altezza clavicola e per la revisione del 2021 siamo a posto. Tanto il bollo non si deve più pagare.

“Papà, prendi. La medicina”. Mi porge un bicchiere di plastica che io porto prontamente alla bocca, faccio glu glu e anche una faccia un po’così, da ficus benjamin, a dimostrazione che lo sciroppo non è di mio gradimento. D. sembra preoccupato.

“Papà, adesso però non gomitare!”. Ma figuriamoci se alla mia veneranda età mi metto a gomitare. Dieci anni fa, magari, mi si poteva vedere ancora gomitare, di rientro da qualche nottata, mantre risalivo le scale di casa con il passo del leopardo. Sui gomiti. Un sacco di scale. E di epicondilite.

Adesso no. Con tre figli sono passato all’albero tagliato. Quando, la sera, ho messo tutti a letto, compreso mia moglie, devo trovare subito qualcosa su cui sedermi perché, se rimango in piedi, casco a terra. Come quegli alberi appena tagliati. Con un gran tonfo.