Il futuro è nelle mie mani. Bucate

Ho un talento innato per la magia: datemi dei soldi e vi farò vedere come riesco a farli sparire, così, il tempo di bersi un caffè. Lo ammetto, ho una deformazione fisica, le mani bucate. Da sempre. I soldi della paghetta adolescenziale? Svaniti in un giorno. Quelli che guadagnavo dando ripetizioni? Neanche un GPS moderno avrebbe potuto tenerne traccia. Il mio conto in banca se ne stava lì, a digiuno, e sebbene fosse un conto, non contava proprio nulla, non essendoci nulla da contare. I miei, disperati, avevano pensato di erigere una diga morale per fermare l’incessante fuoriuscita di denaro. Ma la diga morale era piena di falle. Si rivolsero a un dottore, un luminare, che li tranquillizzò: ‘C’è una cura, ma serve pazienza: si chiama moglie’. E infatti, parecchi euro dopo e a diversi chilometri di distanza, eccomi qui a Zurigo, sposato con una tedesca che, nel rispetto della sana e concreta tradizione germanica, ha finalmente arginato la perdita. Il suo segreto? Insegnarmi una parola che avevo già sentito, ma di cui non avevo mai afferrato il significato: risparmio. 

‘Dobbiamo risparmiare’. La prima volta, ipnotizzato dal suono di quella parola, ho fissato mia moglie a lungo, catalettico. Poi, una volta che quel suono si è trasformato in un mero ricordo, mi è sembrato di vivere dentro a un sogno, dove nulla di quello di cui facevo esperienza era, in fondo, reale. La realtà, però, si ripresentò un giorno davanti alla mia porta, la sfondò e mise in atto la sua prima misura, ovvero l’abolizione dell’unico rituale quasi religioso ancora in uso presso un laico e agnostico convinto quale sono io: il filetto. Sì, è vero, la carne al chilo a Zurigo è valutata più di un diamante grezzo, ma il filetto del fine settimana era come la bottiglia di spumante al varo di una nave da crociera: il divieto mi colpì come un gesto poco augurale. A dirla tutta, aderii di mia spontanea volontà all’invito poco invitante alla parsimonia, simboleggiato dall’eliminazione dal desco del filetto. La mia volontà era ormai stata sopraffatta da un effetto ipnotico, irretita dalle parole melodiose e affabulatrici che la sirena che avevo in casa faceva fuoriuscire mentre io, legato al palo del vincolo matrimoniale, ero costretto ad assorbirle una per una, privo di ogni difesa di tipo auditivo.

Questo era niente rispetto al treno di parole ad alta velocità che, uscendo un giorno dalla sua bocca, mi lasciò tramortito davanti a un concetto che, fino allora, era rimasto rinchiuso dentro la sua deforme nebulosità: quello della mia finitezza. ‘Hai pensato al futuro? PEN-SIO-NE IN-TE-GRA-TI-VA? Se non iniziamo adesso, rischiamo di trascorrere una vecchiaia in povertà’. Vecchiaia? Voleva dire che sarei diventato anziano? Io? Che, con il trascorrere degli anni, avanzando nel degrado fisico, mi sarei avvicinato all’indicibile? Mia moglie stava facendo quello che l’ostetrica non aveva completato quarant’anni prima: stava recidendo del tutto il cordone ombelicale dell’immortalità. Una rivoluzione copernicana che destabilizzò il mio centro gravitazionale, tanto che per un istante dovetti appoggiarmi al tavolo. Solo che era venerdì sera e sul tavolo non c’era il filetto e venni risucchiato da un buco nero a cui seguì una dilatazione temporale gravitazionale: forse furono pochi secondi, ma durarono un’eternità.

Adesso la notte non riesco più a dormire. Come faccio, ora che ho scoperto che questo potrebbe essere il mio ultimo istante e che il mio piano pensionistico viene usato dai cabarettisti come rompighiaccio? Così, mi rigiro nel letto, chiudo gli occhi e li riapro. Ancora vivo. Chiudo gli occhi e li riapro. Tutto a posto. Chiudo gli occhi e li riapro. Giusto per essere sicuri.

‘Non dormi?’, mi domanda J.
‘Non posso’
‘Perché?’
‘Sto risparmiando sulle ore di sonno’