Lo zombie

Vivere con tre figli maschi, tre piccoli figli maschi, non è una cosa facile. E nemmeno una cosa così normale. Non averne, di figli, è normale, logico, sono sicuro che possa essere dimostrato in modo scientifico. Uno, forse, è ancora accettabile, tra le persone che non soffrono di turbe psichiche e tendenze masochistiche. Con il secondo si avverte la diga della logica che cede davanti a delle giustificazioni che non riuscirebbero nemmeno a entrare nell’anticamera dell’oratoria, tipo “Eh, così il primo ha qualcuno con cui giocare”. Dal terzo, devi essere seguito da uno bravo.

A questo si aggiungono le preoccupazioni. Rimarrà un bambino sano? Riuscirà a farsi strada in questa vita così difficile senza farsi attrarre dalle sirene della droga, della violenza, o diventerà un venditore di assicurazioni?

Solo che a me, di queste cose, non me ne frega nulla. Zero. Mia moglie, no, lei non ci dorme, ha le palpitazioni e si immagina già i figli con le manette ai polsi, portati via per aver aver messo il vetro nel contenitore della plastica. Con gli svizzeri c’è poco da scherzare. Io, invece, dormo il sonno dei giusti, quello che ti fa addormentare sul divano dopo i primi dieci minuti di qualche serie definita ‘avvincente’.

No, io ho un altro problema che mi assilla, e riguarda A., il maggiore dei miei figli, il primogenito. Penso ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in lui. Qualcosa che lo sta mangiando, da dentro. La sera, quando lo metto a letto, è un bambino come tutti gli altri. O almeno sembra. Al massimo, se proprio non vuole andare a dormire, sfodera il repertorio di quello posseduto dal demonio. Ma la mattina. La mattina, quando andiamo a svegliarlo.

La prima è J., che alle sette e un quarto entra in camera dei bambini, si avvicina ad A. e gli sussurra parole amorevoli, lo sbaciucchia e con un numero di magia gli fa sparire il piumone. Quindici minuti dopo sono io che faccio il mio ingresso trionfale nella loro stanza, fischiettando la Cavalcata delle valchirie. A. non dà segni di vita. Gli infilo uno specchietto sotto il naso e dal vapore acqueo fuoriesce una scritta, Non mi rompere il cazzo. Quantomeno è morte cerebrale. Mi avvicino anche io e, con la voce impastata e cavernicola, gli intimo di alzarsi se non vuole passare il resto della sua vita senza gli arti inferiori e superiori. Neanche la sfuriata delle sette e trenta sortisce alcun effetto.

Torno da mia moglie, sconfitto, e piangiamo insieme, mentre D. ulula e il piccolo B. cerca di arrampicarsi sopra la televisione. “E se provassimo con il defibrillatore?”, suggerisco.

Improvvisamente una sagoma, che assomiglia in modo sorprendente a mio figlio, esce dalla stanza dei bambini e si dirige verso di noi. È evidente, però, che non è mio figlio: la bocca spalancata, i versi mostruosi, gli occhi chiusi, il passo incerto e claudicante.  È uno zombie. J. mi stringe la mano. “Oddio!”. Cerco di nascondere con il mio corpo gli altri due figli. Be’, in realtà uno lo infilo nel box perché sta cercando di sfondare il vetro della finestra a suon di manate, l’altro è diventato un dinosauro, magari può servire.

Pensa, pensa. Cosa posso fare. Mi scaravento in cucina, estraggo il coltello, quello del pane, e zac, taglio una fetta di pandoro e, con una tecnica derivata dal lancio degli zoccoli delle mamme italiane, allungo il mio braccio e lascio andare la fetta che, con millimetrica precisione, si posa sul piatto di A. Lo zombie, quello nostrano, non può resistere alla vista del dolce veronese. Quando sta per addentarla, la fetta, urlo “Ricordati che nulla è più buono del panettone, nulla!”. Proprio in quel momento vengono a mancargli le forze e cade, esanime, sopra due sedie, rimanendo altri dieci minuti in quella posizione.

Mia moglie, raggiunto l’apice dello stress mattutino, e consapevole che perderà nuovamente l’autobus, si trasforma in Hulk e, dopo essersi battuta energicamente il petto, salta giù dal balcone. La vedo che corre, saltando sopra le macchine e maledicendo il giorno in cui ha deciso di avere figli.

Mancano pochi minuti alle otto, e A. è ancora in pigiama. Devo riuscire a infilargli i vestiti e lavargli i denti. Se non riesco a farlo nei prossimi minuti, arriverà tardi a scuola, quella per gli zombie come lui, e se arriverà tardi, verranno degli uomini vestiti di nero a prenderci e di noi non si saprà più niente fino a quando, un giorno, qualche conoscente di passaggio in un paesino dell’Appenzello esterno vedrà una famiglia di cinque persone, tutte con la barba, vendere a una bancarella delle squisite fette di formaggio.

Devo muovermi come lui, pensare come lui. Mi sbrandello i vestiti, inizio a sbausciare emettendo dei suoni irriproducibili e mi accorgo che sto parlando in svizzero tedesco. A. torna in posizione eretta e mi segue fino al bagno. Una volta entrato, gli infilo lo spazzolino in bocca, cercando di non farmi addentare la mano. Mentre spazzolo energicamente, si addormenta. Sarà l’effetto oscillatorio delle spazzolate. Così sedato, gli infilo i vestiti. Non pensavo sarei arrivato così lontano.

Canto vittoria troppo presto: quando sto per mettergli la giacca e spedirlo fuori casa, resuscita, si accorge di indossare un maglione che non gli piace e, sospinto dalla fame e dal furore, inizia a mangiarlo. O così ricordo, forse si lancia solo giù per terra urlando a squarciagola e tenendosi alla porta.

Sono le otto e dieci, maledizione. Chiamo il pronto intervento antizombie ma la linea è sempre occupata. Non sono l’unico.

Spalanco la porta di casa e mi aggrappo all’ultima speranza rimastami, la minaccia psicologica: se entro venti secondi non sei oltre questa soglia, vestito, giuro che invece ti mandarti a giocare a pallone ti iscrivo a un corso di Filosofia teoretica. A quelle parole A. mi si avventa contro, io mi scanso e richiudo la porta. La minaccia di finire come il padre ha funzionato. Certo, io non avevo i piedi buoni, e se non avessi studiato filosofia non so cosa altro avrei potuto fare. Niente, come adesso, ma sarei stato più felice.

Tiro un sospiro di sollievo e torno in soggiorno. Il piccolo B. ha rosicchiato le sbarre della prigione. D. sta sputando fuoco dalle fauci. Va bene così, affrontiamo una cosa per volta.