Da qualche anno (quattordici, per essere svizzeramente precisi) mi alleno con una squadra di nuoto master. Per chi non lo sapesse, una squadra di nuoto master è composta da vecchietti come me che, allenandosi duro, sono alla ricerca di metodi creativi per procurarsi un infarto e fornire una nuova accezione alla parola masochismo. Chi arriva vivo a fine allenamento grida al miracolo, inizia a camminare sull’acqua e, insieme agli altri sopravvissuti, ravviva il proprio fisico temprato con delle gioviali scariche di defibrillatore. Poi, torna a casa e pensa già a quanto dovrà nuotare per battere il primato del mondo nei duecento stile libero. Basteranno tre allenamenti alla settimana?
La prima tortura acquatica risale al settembre del 2007, a Milano. Non sapevo cosa mi sarebbe aspettato e, a dirla tutta, non lo so nemmeno ora. L’unica cosa di cui sono sicuro è che, nel momento in cui mi tuffo e tocco l’acqua, penso sempre al perché non sono rimasto a casa, sdraiato sul divano, a lobotomizzarmi, felice, davanti alla televisione. Nel 2009, una volta trasferitomi a Zurigo, pervaso dagli olezzi di raclette che mi hanno intriso di etica protestante, ho continuato con un’altra squadra master questo mio percorso di sofferenza, nella speranza di essere riconosciuto come uno dei predestinati, entrare nelle grazie del divino e così aumentare le mie percentuali di chiavata. Non sono un siluro, però sbraccio a un certo ritmo e credo di potermi definire, senza peccare di hybris, un collega di Phelps. Quello che non viene mai salutato, ma l’importante è fare gruppo. Sono il più scarso dei più forti e il più forte dei più scarsi.
Almeno una volta alla settimana, nei giorni dispari o multipli di sette, mi alleno da solo, nella corsia veloce, che qui chiamano Tempo. Ma quale tempo? Non è dato a nessuno saperlo, tranne a pochi eletti, conosciuti come gli oracoli dell’Appenzello, che possono essere consultati alle pendici del Kronberg, dove se ne stanno a suonare il corno alpino e a raccontarsi, in svizzero tedesco, storie da sporcaccioni piuttosto divertenti. Almeno la metà delle persone che vi nuotano dentro, nella Tempo, si spostano a fatica in avanti, fagocitate da quella zavorra che è il loro corpo e che, nel rispetto del principio di Archimede, tende a portarle inesorabilmente sul fondo della vasca. Ma loro non demordono, vedono quella corsia come il traguardo di una vita da nuotatori, un onore riservato a pochi prescelti dotati di fine tecnica e polmoni generosi, un modo per distinguersi dalla massa dei loro simili che, nelle corsie di fianco, si danno un gran da fare per cercare di galleggiare e acquisire propulsione idrodinamica. Li capisco, questi adepti del cloro et laboro, e non è un problema, davvero. Ho tre figli, figuriamoci. Quando me li trovo lì davanti, a peso morto, mezzi affondati, mi commuovo un po’, poi mi sposto sulla sinistra e li supero. Metto anche la freccia, non sono un pirata della strada. Nessun problema, davvero. Almeno per la maggior parte di loro.
Per alcuni, però, che hanno avuto un’infanzia piena di broccoletti e insegnanti sadici, è un’onta che deve essere lavata via cercando di romperti il più possibile gli zebedei. Lo spirito di competizione portato al suo estremo. L’importante non è partecipare, e nemmeno vincere, ma impedirti con ogni mezzo di superare, costi quel che costi. I più innocui sono quelli che, mentre li stai sorpassando, iniziano a far vorticare le braccia così velocemente che, a volte, ho paura di essere risucchiato così, all’improvviso, da un mulinello (ogni tanto passa il bagnino che va a recuperare chi è stato inghiottito da uno di quei vortici infernali). Accelerano, cercano di tenerti testa e, arrivati a fine vasca, mentre riparti, collassano. Fastidiosi, ma innocui. Più che altro ti fanno preoccupare, il colpo apoplettico è dietro l’angolo, accanto alla scaletta.
Poi ci sono i melodrammatici, che sanno che, nonostante l’impegno che ci metteranno, verranno superati, non riescono a metabolizzarlo, e inscenano un’opera degna di un Verdi o di un Puccini. Per esempio, un giorno, un tizio, mentre lo sorpasso, pianta giù una scenata epica, tant’ è che a metà del primo atto entra in scena Andrea Bocelli a sottolineare la drammaticità del testo. Vengo accusato, mentre sono impegnato a fare degli sprint sui cinquanta metri, di averlo schizzato (sia mai) e sfiorato con un braccio. Dove, preferisco non saperlo. Mentre farfuglio qualche scusa, perché tendenzialmente mi sento sempre colpevole, vengo inondato da decibel di urla e insulti, sputazzi e maledizioni. Sul momento gli ho provato la febbre, non mi sembrava stesse benissimo. Sopraggiunge il bagnino, saldamente convinto della necessità di un Trattamento Sanitario Obbligatorio. L’urlatore viene così allontanato, portato sull’ambulanza e da allora non l’ho più incontrato. Probabilmente sta ancora cercando di togliersi la camicia di forza.
L’ultima categoria è quella dei maneschi. Tu li superi, loro perdono le staffe e cercano di affondarti. La violenza è il modo con cui compensano la loro inferiorità natatoria. C’è questo energumeno. Un ex pallanuotista. Non è male, come nuotatore, però è più lento di me. Non mi sembra qualcosa per cui prendersela, a meno che io non sia il nuotatore più lento del mondo e allora lì sì, lo capisco, diventa una lotta per la sopravvivenza. Lo supero, e lui accelera. Io accelero, e lui pure. Così per un cinque minuti abbondanti. Alla fine non ce la faccio più, due coglioni, metto il turbo e via, verso l’infinito e oltre. Mentre viro, avverto qualcosa che mi afferra il piede. Mollo un calcio, vengo afferrato alla caviglia e trascinato all’indietro.
Adesso gli spacco il culo.
Mi volto e mi trovo di fronte il pallanuotista, che è grosso tipo come una montagna. Uno di quelli con il collo taurino, che puoi abbattere solo con un proiettile d’argento e un paletto dentro al cuore. Lo guardo. Mi guarda. Mi guarda, lo guardo. Improvvisamente mi ritrovo catapultato nel selvaggio West. Il vento ulula, alzando nugoli di polvere. Io sputo per terra, un misto di alcol, tabacco e mentine per l’alito, solo che sputo contro vento. Sono cose che si imparano con l’esperienza. Poi uno sparo. Sono stato colpito, c’è un buco enorme sulla mia scarpa. Tiro fuori il piede e vedo che l’unghia dell’alluce è scheggiata. Questa cosa mi costerà un’altra seduta dal pedicurista. Sputo un’altra volta, sempre controvento, e la scena cambia di nuovo.
Sono in cima al Burj Khalifa, nella posizione di guardia delle arti marziali, e con la mano, alla Bruce Lee, faccio segno al pallanuotista di avvicinarsi. Mentre lui avanza, io, un incrocio tra Chuck Norris e Beep Beep, compio tre salti mortali in avanti, gli atterro sulle spalle e giro per dieci volte, completamente, la sua testa. Poi, la lascio andare. Come una trottola impazzita, il suo capoccione inizia a roteare vorticosamente, si stacca dal collo, supera l’atmosfera e si mette a girare intorno alla Terra. Un satellite niente affatto male.
Il sogno a occhi aperti è terminato, ritorno bruscamente alla realtà, dove in scena recita la mia versione pavida, quella per cui l’apice della giornata è il bicchiere di latte serale dove inzuppare i biscotti al burro. Il tizio è ancora lì che mi fissa, con tutta la sua enormità. Pure il cranio è enorme, un menhir di Stonhenge incassato tra le spalle. Apro la bocca, ma solo per prendere fiato, e riparto. Muto, perché altrimenti non sarei qui a raccontarlo, ma riparto. Anche l’abominevole uomo della corsia riparte, ma non prova più a impedirmi il sorpasso. Avermi tirato per una gamba deve avergli consumato le ultime riserve di ossigeno. Non ho più visto neanche lui. Forse sta cercando di capire dove abito. Se lo incontro in autostrada, mi lascio sorpassare.