Le coliche

Facciamo un salto indietro temporale, se il vostro cervello ve lo permette. Vi ricordate cosa stavate facendo un anno e mezzo fa? Io non rammento nemmeno come ho fatto ad alzarmi questa mattina, ma so di aver vissuto il periodo che va da ottobre 2020 a febbraio 2021 in uno stato catatonico perenne. Infatti…

I primi due mesi di vita il nostro terzogenito, B., ci ha fatto disperare. Coliche. Maledette coliche. Mal di pancia. Scoregge. Pianti a tutte le ore del giorno e della notte. Come gli altri due suoi fratelli. Non che ci facessimo molte illusioni. Me lo ripetevo, le prime due settimane in cui dormiva ed era tranquillo, angelico, cambierà, sarà come gli altri due, si trasformerà in un mostro mangiasonno, non ti fidare, non ti fidare. Sono esseri infidi, i neonati, come i pavimenti bagnati, ti distrai un secondo e ti ritrovi a guardare il soffitto per un mese.

E infatti dichiariai fieramente a mia moglie, hai visto, forse la scampiamo. Una hybris così non la vedevano dal tempo della torre di Babele. E lei, guarda che anche D. era così, le coliche arrivano dopo, e io, ma no, dai, D. urlava già dall’inizio, è geneticamente modificato, e lei, guarda che non è così, e insomma, finito il rodaggio di quattrodici giorni, il piccolo B. spazza via ogni speranza a suon di strilli e sonori peti. Tanto dura solo due mesi, mi son detto, la prima notte, quando riuscivo ancora a fare un discorso logico. La terza notte ho pensato che, vivo, non sarei arrivato nemmeno alla fine della prima settimana.

Invece, dopo due mesi, le coliche sembrano ormai solo un ricordo. Terrificante, ma obliato nel passato. Fino a quando, una sera, ricomincia il concerto dodecafonico per urlo solo. “Ha le coliche”, dichiara Julia. “Le coliche?”, domando, incredulo. Non è possibile. Scompaiono dopo i primi tre mesi, deve essere così, per la mia sopravvivenza, e lui sta per entrare nel quarto. Ormai è pronto a contribuire all’economia domestica.

Niente. La vita è solo sofferenza e dopo crepi e continuano a crescerti le unghie, un pensiero che non posso tollerare. A cosa mi dovevo preparare, già ne ero consapevole. Vado in bagno, e vedo un altro capello bianco. Dieci minuti prima non c’era. Chiamo D, “A lavare i denti!”. Tre o quattromila volte, poi compare, camminando come un gorilla, emettendo versi difficilmente attribuilbili a qualsiasi mammifero e rotolandosi per terra gli ultimi due metri. Inizio a spazzolare, cercando di fare il mio meglio con un bambino che apre la bocca quando deve chiuderla e la chiude quando deve aprirla.

“Papà?”
“Dimmi”
“Anche io ho le coliche”
“No, D., tu non hai le coliche. Solo B. ce le ha”
“No, anche io ho le coliche. Mi fa male”
“Dove? Qui, sulla pancia?”, gli chiedo, toccandogli il pancino.
“No, qui”, replica, toccandosi il collo.
“Lì?”
“Sì”
“Quello è il collo”
“Sì. Te l’ho detto. Ho le coliche”

Finisco di lavargli i denti, gli faccio fare la pipì e gli infilo un pannolino per la notte. Mi è venuta in mente quella vecchia barzelletta raccontata in Rocky, quella della mucca che fa mu e del merlo che farebbe me. Chiaro?