Se siete uno di quei classici inquilini dal martello facile che, per appendere il ritratto di famiglia che immortala il sorriso ebete di tre generazioni sedute intorno al capofamiglia, un centenario raggrinzito con il viso deformato da una smorfia di terrore davanti alla possibilità di rimanere altri cinque minuti in posa mentre la sua vescica assume le dimensioni di un pallone aerostatico, riducete il muro di casa a una perfetta imitazione di gruviera svizzero, non potete fare a meno di un profilo professionale specializzato come quello del buttafori.
Il mestiere ha nobili e antiche origini. Già il Vasari, nelle sue ‘Vite’, ne parla con sublime maestria. Il suo famoso ‘Lo buttafori che buttava fori i fori’ ci regala in poche parole l’essenza di un’arte misteriosa e impenetrabile al servizio di architetti e scultori rinascimentali.
Non tutti, tuttavia, condividevano la stessa opinione. Anni prima, Leon Battista Alberti aveva definito la professione del buttafori come priva di alcuna utilità pratica e intellettualmente deplorevole.
Il lavoro del buttafori è filosoficamente pregnante: che cosa rimane infatti del foro, vacuità sostituita dal vacuo? A questa domanda tutti i più grandi pensatori degli ultimi cinquecento anni hanno dedicato almeno trenta secondi del loro prezioso tempo.
L’unica risposta sensata che si conosca è stata data da un monaco buddista che, di fronte all’arduo quesito, pare abbia colpito con violenza la testa di un suo allievo e dedicato in seguito il resto della sua vita a contare i sassolini del suo giardino zen.
Per chi volesse approfondire, consigliamo ‘Foro et laboro’, un libro che racconta in molte pagine e pochi concetti l’installazione, nel 2001, alla Biennale di Venezia, di un foro e della sua tragica scomparsa.
Ciao, c’è un forum?