L’ostenografo

Fare i conti senza l’ostenografo. Quante volte avrete sentito questa espressione? Io, mai.

Tuttavia, questa nobile professione, rimasta sconosciuta fino a circa cinque minuti fa, ha conosciuto il suo momento aureo tra il 1965 e il 2005, quando in un piccolo paesino del molisano fu aperta e fiorì l’osteria dell’Airetso.

Sì, il nome non significava nulla se non osteria all’incontrario, cosa che faceva sganasciare dalle risate orde di scemi del villaggio che si accalcavano lì la sera per bersi un bicchiere di rosso o ammazzarsi di liquore al latte.

Il locandiere era un ragazzone timido che, a causa della sua timidezza, non rivelò mai a nessuno il suo vero nome. Nemmeno a sua madre. Molti credevano avesse la faccia da Mario, alcuni da Ernesto, pochi da Rosa ma evidentemente non si erano mai accorti della folta barba che gli cresceva copiosa dalle orecchie.

MarioErnestoRosa aveva un dono: non solo segnava l’ordinazione, ma annotava tutto quello che gli veniva detto secondo il metodo stenografico del Cima. Per molti questo era un esercizio di pura vacuità, come insegnare l’educazione ai miei figli.

La cosa sorprendente era che anche l’ordinazione veniva servita nel momento esatto in cui veniva ordinata. Questa tecnica strabiliante gli valse l’appellativo di ostenografo e un articolo nell’edizione serale del Corrierino dei piccoli molisani.

Nel 2005, dopo essere stato colpito da un merzluzzo ancora surgelato scagliatogli in faccia da un cliente che non ne aveva apprezzato il livello di cottura, perse la capacità di intendere e volere e anche quel dono che aveva contribuito a rendere così famosa la suo osteria.

Il locale venne chiuso, il paesino venne fatto sparire dalle carte geografiche insieme al Molise e MarioErnestoRosa passò gli ultimi dieci anni della sua vita davanti allo specchio del bagno a conversare di fisica quantistica con la sua immagine.