La prima autostrada del mondo è un’invenzione tutta italiana, come la pizza, la mafia e l’evasione fiscale. All’inizio stentavo a crederci, ma ho cambiato idea dopo che il professor Ulderico V.d.M, accademico dei lincei e sagace polemista, mi ha schiaffeggiato più volte con un volume dell’enciclopedia Treccani.
Il merito è di un milanese, Piero Puricelli, nato nella città meneghina nel 1883. Mentre i bambini della sua età trascorrevano il tempo a giocare con la palla, a fare il salto della cavallina o a prendersi qualche malattia incurabile, il Piero aveva dei sogni.
“Voglio andare sulla Luna”, ripeteva ai suoi genitori, i conti di Lomnago, milanesi tradizionali, pratici, che già vedevano il figlio medico, commercialista o partner di uno studio di avvocati con sede in via Montenapoleone.
Non scelse nessuna delle tre professioni. Spinto da un certo feticismo per ordine e regole, se ne andò a Zurigo, ci rimase qualche anno e tornò indietro con in tasca una laurea in ingegneria e una certa flessione svizzero tedesca, gruetzi.
Accantonato il sogno di diventare astronauta, Piero si convinse che, sebbene l’uomo non potesse ancora farsi un giro sulla Luna per un caffè e qualche pasticcino, poteva almeno partire da Milano per andare a fare due passi a Varese.
Nasce così l’idea di collegare le due città con una strada adibita al solo passaggio di mezzi veloci. Niente biciclette, carri trainati da buoi, cavalli o monopattini elettrici. Automobili.
Sì, perché il Piero, che aveva fiuto per gli affari, aveva capito che l’auto sarebbe stato il mezzo di trasporto del futuro. L’auto veloce che fa brum brum, con i sedili in pelle riscaldati e l’arbre magique appeso allo specchietto, il cambio automatico e quarantotto rate con anticipo zero (TAN 3,45%, TAEG 4,72%).
Il 21 settembre 1924 è un grande giorno: alla presenza di un sacco di gente importante e di qualche influencer venuto a scroccare delle eccezionali tartine al salmone, viene inaugurata la Milano Laghi, la prima autostrada del mondo.
Ed è anche la prima volta che degli esseri umani sentono la parola autostrada, coniata per l’occasione proprio dal Piero Puricelli, personaggio eclettico e pieno di inventiva.
Inizialmente aveva pensato a stradaauto, ma suonava male. Rinascente era perfetto, pomposo, magniloquente, simboleggiante un nuovo inizio, ma era stato diffidato dall’usarlo dal poeta D’Annunzio, che aveva minacciato di sorvolare la strada con il suo aereo e sganciarci sopra qualche bombetta.
Autostrada era il compromesso migliore. La notizia si sparse velocemente e ben presto tutti vollero un’autostrada. La volevano i veneti e i piemontesi, i francesi e i cinesi, i guelfi e i ghibellini. Una, due, tre autostrade, e via, quattro, cinque e improvvisamente tutto il mondo si ritrovò tappezzato di autostrade, tangenziali e raccordi anulari.
L’autostrada rappresentò la modernità così come la conosciamo noi, con le sue code chilometriche, la gente a far la fila per un Camogli e i cani abbandonati che pisciano sul distributore di benzina.
Oggi l’autostrada non viene più trattata con il rispetto dovuto e questo a causa dei limiti di velocità che, pur non rispettati, rimangano fastidiosi, degli aerei, che permettono di percorrere la tratta Nord – Sud senza essere risucchiati da qualche buco spaziotemporale e del mio prozio Ennio che, all’età di novantacinque anni, guida ancora da Milano a San Benedetto del Tronto stando ben attento a non superare i venticinque allora.
Se siete incolonnati dietro, è inutile che gli inveiate contro: non ci sente.