Il bongo

All’ultimo convegno sull’utilitarismo apofatico, tenutosi all’ombra di un ombrellone del Papete, si è discusso di quale sia l’inutile che non può essere identificato con il bene. Si è parlato di pizza con l’ananas, zanzare, pasta scotta, la trap, il Molise, tutte cose che partecipano alla gara dell’inutilità.

A un certo punto l’utilitarista A. E., che ritiene del tutto inutile avere nome e cognome che contengano più di una lettera, si è alzato dalla sdraio e ha detto “Questo convegno è del tutto inutile!”. Lo ha fatto sbiascicando, perché al terzo mojito con trentacinque gradi ci vuole un certo allenamento, ma l’applauso che ne è seguito fa pensare che anche gli altri relatori fossero d’accordo.

Sembrava finita lì quando da una buca di sabbia è comparso Saverio Sottolano, unico uomo al mondo ad aver letto le opere di John Stuart Mill all’incontrario, che, barcollando, ha urlato “I bongo, i bongo hanno rotto il ca…”. Purtroppo ha perso i sensi prima di poter finire la frase.

I partecipanti al convegno hanno provato a terminarla, e la versione ufficiale è I bongo hanno rotto il catetere, giudicata una frase del tutto inutile. E allora ce lo siamo chiesti anche noi, ma i bongo, a cosa servono? Prima di poter rispondere, sarebbe meglio capire chi e perché li ha inventati.

Le percussioni sono state il primo strumento musicale. Già i nostri antenati, gli scimpanzé, si dilettavano ad aggiungere un po’ di ritmo nella loro vita fatta di bannane e spulciate percuotendosi i testicoli. Triviale, ma efficace. Certo, il suono era quello che era e alla quarta battuta gli scimpanzé tendevano a perdere i sensi, oltre che la mascolinità. Il detto Prendi l’arte e mettila da parte nasce proprio in quel periodo.

Con l’evoluzione e il nuovo modello di scimpanzé 10.2, l’homo sapiens, i gusti si fanno più raffinati, così come gli strumenti. Le scatole craniche, dal puro punto di vista musicale, si rivelano molto più melodiche, e con delle clavate sapientemente dosate non solo si poteva uccidere un avversario, ma anche creare delle ottime ritmiche per la salsa.

Sembra incredibile, ma il bongo, così come lo conosciamo, dovette aspettare migliaia e migliaia di anni prima di apparire sulla faccia della Terra. Purtroppo. “Come è possibile?”, si chiede incredulo Davide Dorello, che ha suonato i bongo per trent’anni al Parco Sempione, rischiando di finire tumulato durante la famosa nevicata del 1985.

Una risposta articolata arriva dal teologo Hans Peter Cedolino, che nel trattato “Bongos und Teodicea” sostiene che il mondo di allora, già pregno di sofferenza, non poteva accogliere altra sofferenza. E così, passano i secoli. Gli uomini iniziano a incontrarsi nei parchi delle varie città, si salutano, magari si fumano pure una canna, ma non sanno cosa fare. Si siedono sulle panchine, sulle gradinate, e si guardano per ore. Non è un bello spettacolo. Un otium privo di qualsiasi carattere contemplativo.

Ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, architettori e fancazzistori il Vasari ci racconta di Bernardino Salutatino, messere che aveva trascorso dieci anni seduto su una panchina dei giardini dietro casa sua a fissare, un po’ fatto, Giordano Piccino, un altro messere che aveva elevato ad arte il mestiere dello scansafatiche. Il Salutatino, davanti alla domanda provocatoria del Vasari di descrivergli in modo sintetico la propria vita, aveva dichiarato “Du palle”.

Finalmente, da qualche parte nel mondo, forse in Africa, per alcuni a Cuba, compare il primo bongo. La teoria più accreditata è quella secondo cui il bongo deriverebbe il suo nome dal fatto di essere stato creato la prima volta con il pongo. Inizialmente venne utilizzato come sgabello, ma chi era più alto di novanta centimetri lo trovava piuttosto scomodo.

Fu uno sciamano a percuoterlo per la prima volta, pensando di riuscire a evocare gli dèi, non sapendo che quel suono ininterrotto sarebbe stato in grado, secoli dopo, di evocare una tempesta di bestemmie che avrebbe portato al nichilismo e al crollo generale della fede.

Il bongo venne adottato da fior di musicisti, o almeno da gente in grado di distinguere una croma da una semi croma. Purtroppo, stiamo parlando di una sparuta minoranza. Infatti, i bongo hanno conosciuto una diffusione senza precedenti tra due categorie di persone.

Alla prima appartengono le mamme con figli maschi in età scolastica: al momento della sveglia mattutina, quando i pargoli faticano a uscire dal torpore delle coperte, la madre castrante assalta la stanza dei figli, spalanca le finestre anche in pieno inverno e inizia a percuotere i bongo come se fossero uno strumento di battaglia. A quel punto non solo i figli si alzano e partono volontari per la legione straniera, ma si alzano pure tutti i vicini, compresa la signora Adelina, che sono vent’anni che non ci sente più una mazza.

La seconda categoria è composta da una variegata fauna umana accomunata da tre cose: l’amore per la natura, le attività all’aria aperta e i parchi in particolare; l’otium, nell’accezione contemporanea del non fare un cazzo tutto il giorno; ignorare l’imperativo categorico kantiano Agisci in modo che la regola a cui obbedisce la tua azione possa essere parte di una legislazione universale e, spesso, anche le nozioni di base della ritmica.

Il rompimento di palle percussivo dei bongo nei parchi del milanese si è diffuso in maniera così veloce che le autorità, per cercare di bloccare il contagio a livello nazionale, avevano cercato, senza successo, di imporre un lockdown di tre mesi e la deportazione di tutti i suonatori di bongo nelle zone infestate dalla ‘ndrangheta, con la speranza che i ricercati uscissero di loro spontanea volontà dai rifugi in cui si nascondevano e si consegnassero alle autorità.

Di tutto ciò, non si è fatto mai niente, a causa di un cavillo costituzionale che pare protegga la libertà di espressione. Nonostante le sue indubbie potenzialità ritmiche, il bongo continua a essere usato come strumento di tortura cacofonica. Nel 2011 è stato dichiarato crimine contro l’umanità dai residenti che vivono nei pressi dei parchi cittadini.