Il carnevale

Che. Idea. Geniale. Una massa di idioti che, vestiti da idioti, possono comportarsi come degli idioti. No, non è la settimana della moda. Sto parlando del Carnevale.

Tutti credono che la parola Carnevale derivi da Carne levare, un’antica usanza di fare a meno della carne rossa almeno una volta alla settimana e privilegiare le carni bianche, legumi e frutta secca. In realtà, il nome deriva da Carnevale, Ottuso Carnevale, un guappo di origini campane longobarde.

Durante gli anni della sua permanenza a Mediolanum, il Carnevale era solito organizzare, insieme al suo amico Silvius B., dei festini peperini a cui si poteva accedere solo se si conoscevano almeno due canzoni a memoria dei Divites et pauperes: Mater (lacrimosa) Maria e Erit quod te amo, grandi successi che mettevano sempre tanta allegria.

Una notte di febbraio, alla festa per il compleanno di Ottuso Carnevale, un conviviale (di cui non conosciamo il nome e le cui ossa sono conservate in una teca a casa della cugina di mia zia), gonfio di vino e altre sostanze che, se assunte tutte insieme, impediscono al cittadino comune di comprendere fino in fondo il teorema di Fermat, se ne esce in strada, barcollando, con addosso solo le mutande.

È inverno e a quei tempi, e stiamo parlando di tanti anni fa, quando nessuno di voi era ancora nato, non era come oggi, che fa solo un freddo cane, ma tanto c’è il riscaldamento globale. No, no, era un freddo freddo, di quelli che in soli due secondi ti rimpiccioliscono il pisello a dimensioni da ricerca di microbiologia.

Insomma, siamo in piena tundra siberiana e il conviviale barcolla tra le vetrine di Montenapoleone in evidente stato alterato. Sopraggiunge una pattuglia della polizia a bordo di un calesse Alfaromeo a trazione anteriore, con due cavalli sportivi ed eleganti che i calessi stranieri se li sognano la notte.

I solerti poliziotti, che pattugliano le vie del centro contro le orde di barbari che, dalla via della seta e non solo vengono a fare razzia di piumini lucidi e borsette di lusso, scendono dal calesse con fare interrogativo.

“Ohibò, conviviale”, esordisce uno dei due poliziotti, avendo riconosciuto il conviviale, una faccia nota delle notti milanesi, “bonum vesperam! Non le sembra un tantino algidus per girare solo con indosso un paio di mutandae?”

Il conviviale si guarda l’intimo e risponde con un no sbiascicato.
“E potrebbe dirci, conviviale, perché allora indossa solo le mutandae?”
“Sto festeggiando”
“Festeggiando cosa?”
“Sto festeggiando il Carnevale, no?”

I due poliziotti si guardano, perplessi.

“E lo festeggia così?”
“Be’? Che male c’è? Mi sono travestito”
“Travestito da cosa?”

Il conviviale ci pensa un po’ su, mentre si appoggia al muro per evitare di piombare giù al suolo. “Da borgomastro Gabriel Albertinus”. A quelle parole i gendarmi prendono il conviviale, lo infilano sul calesse e partono in direzione questura dove, dopo averlo riempito di coppini per una mezz’ora abbondante, lo lasciano sopra una panca a smaltire la sbornia.

La voce si diffonde tra i vari notabili mediolanumensi, le grandi famiglie e anche il popolino. L’idea piace e, dall’anno dopo, un gruppo più sostanzioso di persone si ritrova a festeggiare il Carnevale, senza che il Carnevale ne sappia nulla.

Nel corso dei secoli il Carnevale è diventata una di quelle feste che piace un po’ a tutti, grandi, piccini, pure a Fufu, il chihuahua del custode del palazzo in cui vivo. Ogni Carnevale, si traveste da pitbull e si diverte a pisciare e cagare sul divano del suo padrone, convinto com’è che, così travestito, il suo padrone non si azzardi nemmeno ad avvicinarsi. Naturalmente sono convinzioni da cane poco intelligente, e infatti ogni volta si prende una dose di scarpate di cui a lui non frega niente perché, come diceva il mio psichiatra, semel in anno licet insanire. 

2 commenti

  1. Ricordo con nostalgia quel Carnevale in Venetiae di dieci anni fa, le calli e le piazze stracolme di cinesi travestiti da zaini. Mi innamorai perdutamente. Lei era in mezzo ad una calle, la ostruiva, con la sua sindrome di Marfan infilata come i gamberi nel tramezzino, travestita da materasso a due piazze e 1/4, cercava di trattenere fra le mani due grossi cuscini. La gente non passava ed i cinesi si divertivano a confondere un gruppo di studenti in gita scolastica, appoggiati ad un muro in mezzo ai. loro zaini di scuola.
    Poi la vidi ancora. Appena dietro alla mia Marfan materasso, appena ascesa da un Botero, invitante e démodé come un boero, lei, travestita da sommozzatore com bombola, maschera e boccaglio, giubbotto gonfiabile, e pinne da discesa verticale per gare di apnea. Il mio albatross Baudelaireiano, la mia cremeria senza Gigi, il mio Ferrero roche con Ambrogio.
    Fu la mia prima ed ultima volta in tre. Non riuscì mai a spogliarle.

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