Chi non conosce Platone? Mia zia Eustachia, per esempio. Non solo non lo conosce, ma non sarebbe nemmeno in grado di riconoscerlo, come gran parte dei suoi nipoti.
Platone è il Muhammad Ali della filosofia, anche se lo stesso si potrebbe dire di Aristotele, Seneca, Agostino, Mosè Maimonide, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Michel de Montaigne, David Hume, Cartesio, Spinoza, Pascal, Leibniz, Kant, Hegel, Marx, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Bergson, Husserl, Heidegger, Sartre, Frege, Russell, Wittgenstein, Popper, Berlin e lo zio Vilfredo, marito dell’Eustachia, che in una sola alzata di sopracciglio era in grado di racchiudere un trattato di etica.
Il filosofo nacque nel quattrocentoventotto avanti Cristo ad Atene, figlio di genitore uno e genitore due (notizia confermatami al telefono da un funzionario con idee piuttosto progressiste dell’ufficio anagrafe ateniese). Aveva una sorella, Potone, un cugino Petone e una cintura di pitone.
Visse e lavorò per la maggior parte del suo tempo nella capitale greca e viaggiò più di una volta in Sicilia, una regione che amava per le arance tarocco, le rovine greche e la granita a colazione.
Il suo vero nome era Kevin. Platone, infatti, è un soprannome che significa ampio. Alcuni ritengono si riferisca alle spalle, in quanto praticante del pancrazio, una specie di lotta di quei tempi che prevedeva la protezione delle mani con degli strati di feta. Altri ritengono che fosse riferito alla sua fronte, sopra la quale scrisse due dei suoi numerosi dialoghi. Degli storici più avanguardisti sono convinti che si riferisse al pene, almeno all’idea in sé che ne aveva il filosofo.
Platone fonda ad Atene la sua Accademia, i cui insegnamenti si basavano su scienza e dialettica. Ogni martedì sera, in prima serata, andava in onda un dibattito tra il maestro, gli allievi, alcuni opinionisti politici, ambasciatori, scrittori, cantanti e Glauco, il barista dell’Accademia che amava discutere di tutto, dai vaccini alle supernove.
L’influenza di Platone nella civiltà occidentale è decisamente sopravvalutata. Basta farsi un giro allo stadio per rendersene conto. Per cosa, allora viene ricordato? Ho dovuto consultare Wikipedia perché l’ultima volta che avevo discusso di Platone era stato più di vent’anni fa, alla mia tesi di dottorato, Esperire il mondo con le narici: una dissertazione filosofica.
La sua teoria più famosa è quella delle idee. Che cosa sono le idee? Oltre a essere quelle cose che il mio circolo ristretto di amici non è mai in grado di concepire, vengono definite come il fondamento gnoseologico e ontologico della realtà.
Le idee platoniche sono i modelli eterni necessari per riconoscere le cose del mondo e confrontarle tra loro. Devo dire che una sera, a una festa, avevo conosciuto un modello. Non so se fosse eterno o meno, però non era in grado di riconoscere la destra dalla sinistra.
Le idee sono anche causa delle cose di cui sono idee. Per esempio, il mio naso non potrebbe esistere se non esistesse l’idea del naso in sé. Ma l’idea del naso in sé è ben lungi dall’essere simile al mio naso; quindi, il mio naso in realtà non esiste. Peccato. Ora che abbiamo chiarito questo punto, chiediamoci: che rapporto esiste tra idee e cose sensibili? Di amore? Padre-figlio? Consenziente?
Dalla risposta a questa domanda nasce l’ontologia platonica. Molti la confondono con l’antologia platonica, ma è evidente che i due concetti sono molto differenti in quanto l’ontologia inizia per o mentre l’antologia inizia per a. Di cosa si tratta?
Ce lo spiega bene Platone raccontandoci il famoso mito della caverna. Alcuni uomini sono tenuti prigionieri in una caverna fin da quando sono bambini. Non si sa che cosa abbiano fatto per meritarsi questo, anche se alcuni sospettano che abbiano grattugiato della feta sopra gli spaghetti allo scoglio.
Questi schiavi, a causa delle catene con cui sono legati, possono fissare solo una parete della caverna. Niente serie di Netflix e film in streaming, perché sulla parete vengono proiettate da mani sapienti delle ombre cinesi: il cigno, il coniglio, il cervo, il gatto, l’impiegato delle poste, l’ausiliario della sosta.
Un giorno avviene l’impensabile: uno schiavo, dopo essersi trasformato in Hulk, spezza le catene ed esce dalla caverna. Viene accecato dalla luce del sole, ma uno zio, uno di Milano Milano, gli infila un paio di occhiali da sole. L’ex schiavo si ritrova circondato da una marea di gente che si dimena, con le braccia alzate. È al Cavo Paradiso, a Mykonos, ed è pieno di figa. Ragazzi, che svolta.
Il nuovo uomo torna dai suoi ex compagni di prigionia, che a dirla tutta se ne stanno accovacciati sotto la console, ma quando gli racconta quello che succede nel mondo, quello vero, lo mandano a fare in culo e continuano a ingozzarsi di pasticche. Il mito della caverna è un’allegoria. Quello che ci vuole dire Platone è che la conoscenza intellettuale consiste nella capacità di contemplare direttamente il mondo delle idee e che vivere in una caverna senza i comfort a cui siamo ormai abituati è da veri scimuniti.
Fanno scalpore le critiche che Platone rivolge all’arte. A causa degli effetti che producono sulle menti sensibili, Platone è convinto che le manifestazioni artistiche debbano essere regolate dallo Stato. Per questo non tollera i poeti, estromessi dal suo stato ideale. Omero gli causa una fastidiosa dermatite, Dante gli scatena reazioni ossessivo compulsive e il Leopardi gli fa passare la voglia di frequentare i locali per scambisti.
Considera le opere d’arte, così come le persone, relativamente belle. Tutt’al più carine. Niente che possa essere equiparato alle forme geometriche regolari, belle in senso assoluto. Da qui si capisce meglio la sua infatuazione in età post-adolescenziale per un triangolo, un’attrazione repentina e che non fu mai ricambiata. In uno dei suoi dialoghi, il Timeo, sarà proprio il triangolo a costituire il fondamento della realtà materiale, una dedica evidente all’amore della sua gioventù.
Anche la musica non sfugge alle grinfie critiche del filosofo, che la considera demoralizzante. Evidente doveva essere stato trascinato a una di quelle performance di musica seriale capaci di ridurre in poltiglia la gioia di vivere di chiunque. Platone si scaglia in particolare contro il flauto, che ritiene uno strumento che non serve a niente a parte far suonare milioni di studenti delle scuole medie l’Inno alla gioia. Che spreco. Tutto questo, nel suo stato ideale, non avrebbe trovato spazio. E quale era allora il suo Stato ideale?
Lo Stato fondato sul supremo valore della giustizia e del bene. Quello in cui il politico diventa filosofo. Un parlamento dove i deputati della camera e del senato si confrontano su temi che guideranno l’uomo vero il raggiungimento della verità: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Qual è il rapporto tra idee ed esperienza? Come possiamo conoscere la realtà? È morale bere un cappuccino a fine pranzo?
Domande forse che non aiuteranno a risolvere il problema del costo troppo altro del lavoro o dell’ingiustizia sociale, ma se il fine ultimo è guidare l’uomo verso il raggiungimento della verità, chissenefrega.
Nello Stato ideale di Platone, che alcuni hanno individuato nel cantone Zugo della Confederazione Svizzera, i filosofi, in cui domina la parte razionale dell’anima, quella che non ti fa mandare messaggini vocali e foto ambigue alle tre del mattino, al culmine di una nottata a base di negroni sbagliati, governano.
I guerrieri, dominati dalla parte irascibile, coraggiosi, sono quelli che difendono i confini dello Stato, combattono, e in discoteca ti urlano, Cazzo guardi. In terza posizione, con un bel margine di distacco, troviamo i lavoratori, gente dotata di pazienza, capacità di sacrificio e diritto allo sciopero, specie di venerdì.
Nello Stato ideale platonico la proprietà privata è abolita a vantaggio della comunione dei beni, cosa che ha causato notevoli grattacapi legali nelle cause di divorzio. Platone getta qui le basi di quel comunismo politico che verrà poi ripreso secoli dopo da Marx e i suoi fratelli per far ridere milioni di persone in tutto il mondo. Più o meno.